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la tutela dell’identita’aziendale, proprietà intellettuale, protezione del brand

1. Il valore del marchio d’impresa

Attualmente un punto di partenza fondamentale nelle strategie di business è la valorizzazione del marchio, ovvero di tutte quelle attività legate al brand empowerment, alla brand loyalty ed alla brand awareness.

«Esso, veicolo di diffusione dell’immagine aziendale, fa parte del capitale intangibile relazionale dell’azienda, consistente nei rapporti più o meno di fiducia e duratori che l’impresa riesce ad instaurare con i propri stakeholders»[1].

Questo rappresenta un asset fondamentale, un punto dirimente per il business moderno, sebbene sia quasi impossibile da quantificare. In esso non si incarna, infatti, unicamente il valore legato alle spese di registrazione del marchio, ma è racchiuso un coacervo di fattori che in parte sono comuni al concetto di “avviamento” di un’organizzazione, ovvero una serie di elementi qualitativi che sono determinati dalla percezione propria del pubblico di riferimento.

Il brand è un termine che comprende tutte le attività di una società che possono aiutare a costruire una reputazione che sia poi spendibile nel mondo degli affari. Ci si basa generalmente sulla presunzione, cioè, che un brand affermato tenda a generare maggiori ricavi, poiché i consumatori potenziali saranno portati a credere che un prodotto con un brand molto conosciuto, sarà migliore di uno meno famoso. In ultima istanza, quindi, è possibile dire, così come ampiamente discusso da studiosi come Keller e Busacca (Keller et al., 2005), che il potere del brand sia uno degli elementi preponderanti per influenzare i comportamenti di scelta dei potenziali clienti.

Vista l’importanza che il marchio riveste a livello aziendale, il suo disegno, lo sviluppo, il mantenimento e la tutela implicano necessariamente un lavoro globale orientato a 360°, che contempli varie aree dell’organizzazione come il marketing, la comunicazione, il settore legale ed il reparto operativo; tutte queste attività, affinché si possa operare nel miglior modo possibile all’interno del mercato di riferimento, devono essere poste in essere dalla società su ciascuno dei marchi che detiene in portafoglio, ricomprendendovi chiaramente anche quelle legate al brand della eventuale holding.

Attraverso la gestione del brand, dunque, si ha quella che è possibile definire un’attività sociale, mentre relativamente al marchio, che è bene ricordarlo rappresenta un di cui del brand, abbiamo una vera e propria costruzione, legale e non solo, di una struttura di business.

Alla luce di quanto appena chiarito, risulta lapalissiano quindi quanto possa essere cruciale per un’impresa essere consapevole, tra le altre cose, dell’importanza che il marchio può avere nello sviluppo dell’attività economica, della sua cornice legale e della protezione che deve porre in essere. Questa esigenza trova la propria ratio nel fatto che costruire una forte protezione legale in relazione alle risorse più preziose dell’azienda, significa in altre parole garantire lo sviluppo futuro del brand e quindi dell’azienda stessa.

 

2. Evoluzione legislativa ed armonizzazione europea

Negli ultimi quarant’anni si è avuto un notevole aumento dell’interesse in materia di diritti d’autore, e questo sviluppo si è manifestato con l’inclusione dei diritti di proprietà intellettuale nel contesto dei negoziati sul commercio mondiale condotti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, O.M.C., meglio conosciuta come W.T.O.; il risultato ultimo di tali negoziati è stato raggiunto con il TRIPs (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights Agreement, 1994), un accordo internazionale relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale in cui si stabilivano i requisiti che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale, nell’ambito del copyright, delle indicazioni geografiche protette (IGP), dell’industrial design, dei brevetti, dei marchi di fabbrica registrati e di numerosi altri ambiti.

In definitiva esso, pur essendo molto simile nella sostanza a convenzioni pregresse riguardo la definizione sostanziale dei diritti di proprietà intellettuale, ha avuto il grande pregio di inserire norme sulla protezione ed il rispetto di essa.

L’Unione Europea è stata, e lo è tutt’ora, un ulteriore elemento catalizzatore di uno sviluppo in questo ambito, attraverso numerose iniziative legislative, quali direttive e regolamenti.

Negli anni, ha approntato un sistema di protezione dei diritti comunitari in tema di proprietà intellettuale, denominato fino al 2016 Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno – U.A.M.I., poi rinominato E.U.I.P.O., ovvero Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale, avente il compito di gestire i marchi ed il design industriale per il mercato interno dell’Unione.

Il suo interesse è dovuto principalmente alla stretta correlazione tra i diritti comunitari ed i principi fondanti dell’Unione. Al riguardo, è sufficiente pensare al principio di concorrenza effettiva ed al principio della libera circolazione delle merci.

Emblematico di tale contesto è il cosiddetto esaurimento dei diritti, una teoria che mira a trovare un equilibrio tra gli interessi alla libera circolazione delle merci ed una effettiva concorrenza da un lato, e l’interesse a supportare e rendere forti i diritti di proprietà intellettuali dall’altro.

La teoria in questione assume che i titolari di diritti di proprietà intellettuale o industriale, abbiano un diritto di esclusiva per lo sfruttamento economico di questi beni immateriali (al riguardo si vedano per l’Italia il Codice della proprietà industriale e la Legge 22 aprile 1941 n. 633). Tuttavia, una volta che essi porranno in vendita, o daranno il proprio consenso a tale finalità, i prodotti nei quali il bene è incorporato o affisso, tale diritto si esaurirà.

Emerge dunque chiaramente dalla legge come il proprietario abbia diritto ad una protezione forte ed efficace che non possa essere contestata in base alla legge sulla concorrenza o sulla libera circolazione delle merci, in contrasto con l’uso e l’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale, i quali possono così essere messi in discussione.

Si afferma, cioè, che un diritto di proprietà intellettuale non possa essere utilizzato per opporsi alla libera circolazione delle merci sulle quali pendano diritti di tale natura, una volta che tali beni vengano immessi sul mercato da parte o con il consenso del titolare.

«Contrariamente, infatti, a quanto accade per il diritto d’autore (e per la quasi totalità dei diritti connessi), che si perfezionano con lo stesso atto intellettuale della creazione dell’opera, la costituzione dei diritti di proprietà intellettuale richiede un espresso provvedimento di concessione (brevettazione o registrazione), reso dalla competente autorità all’esito di un procedimento di esame, più o meno complesso, della relativa domanda. Senza un tale provvedimento – e quindi del tutto indipendentemente dall’intrinseco valore dell’innovazione o del segno distintivo – non sorge (e quindi non può essere oggetto di trasferimento o valorizzazione), nessun diritto: non esiste, in altre parole, alcun bene che sia giuridicamente tale, prevalendo invece, in tal caso, il più generale diritto alla libera circolazione (ed utilizzazione) delle idee (comprese quelle altrui)»[2].

Fin dagli anni novanta, l’attenzione del legislatore europeo verso i diritti di proprietà intellettuale è andata crescendo verso una complessiva armonizzazione del diritto dell’Unione, ottenuta prevalentemente attraverso il contributo della giurisprudenza circa l’interpretazione corretta da applicare alle norme europee in materia.

Come risultato di questo contributo, la normativa riguardante il marchio è diventata la prima tra le materie della proprietà intellettuale ad essere armonizzata in tutta l’Unione.

La prima direttiva sull’armonizzazione entrò in vigore nel 1989 (N. 89/104 CEE)[3] mentre nel 1994 (N. 40/94 CE)[4] venne promulgata una normativa regolamentare sul marchio che istituiva un sistema separato di marchi comunitari. Attualmente, sia la direttiva che il regolamento sono sostituite da versioni codificate, frutto dell’armonizzazione dell’Unione Europea.

La direttiva sui marchi 2008/95 ed il regolamento 2009/207 sono i capisaldi normativi della materia in oggetto, e pur non essendo gli unici atti degni di nota sono, tuttavia, quelli in grado di fornire una visione chiara ed organica della materia.

La giurisprudenza sul merito, invece, si sviluppa attraverso due componenti fondamentali.

In primo luogo vi sono le richieste degli Stati membri che, con domande preliminari, richiedono alla Corte di Giustizia Europea un’informazione sull’interpretazione della direttiva sui marchi.

Oltre a ciò, esiste una giurisprudenza amministrativa che rappresenta il risultato ultimo dell’introduzione di un sistema di diritto comunitario, denominato dapprima U.A.M.I.,  Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno, e successivamente E.U.I.P.O., Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale, il quale ha la necessaria indipendenza amministrativa nel decidere sul merito delle richieste di invalidamento dei documenti e dei titoli depositati. Questo ufficio, ad esempio, può decidere di non approvare la registrazione di un marchio e tale decisione può in seguito essere appellata.

Questo duplice sistema produce molti documenti normativi, ma ha il difetto di non risultare sufficientemente chiaro ed esaustivo circa la disciplina normativa del marchio stesso.

Il marchio, a differenza degli altri copyright, ha una durata infinita, prevista per legge. Tutti gli altri diritti di copyright hanno invece protezione limitata nel tempo e sono quindi suscettibili di interessi di tutela diversi.

Pper individuare gli aspetti rilevanti del diritto dei marchi, pertanto, occorre guardare alla durata della protezione dello stesso, in quanto alcune norme sono applicabili nel momento in cui sorge, altre lo sono per tutta la vita, ed infine altre ancora nel momento in cui cessa di esistere.

La direttiva 2008/95, agli articoli 2 e 3, si occupa della nascita e della creazione di marchi, con annessi i prerequisiti e le eccezioni. L’articolo 5, invece, si occupa di ciò che i proprietari hanno il permesso di fare con il marchio. Gli articoli 6 e 7 ne disciplinano le limitazioni, mentre l’articolo 10 ne disciplina l’uso ed infine l’articolo 12 si occupa della revoca.

Il resto della disciplina normativa, come già indicato, è frutto di elaborazione giurisprudenziale.

 

3. Protezione del marchio

Il diritto di marchio è un diritto registrato oltrechè un diritto perenne.

Per la registrazione e, dunque, per l’approvazione di un marchio è necessario che siano presenti determinati requisiti. Per questa motivazione è importante indagare sull’esistenza dei prerequisiti per la sua protezione.

Un punto di partenza per tale indagine è costituito dall’articolo 2 della direttiva sul marchio d’impresa (2008/95), il quale evidenzia due prerequisiti da soddisfare necessariamente:

  • il segno deve poter essere oggetto di rappresentazione grafica;
  • deve essere in grado di distinguere un bene o un servizio, deve avere, in altre parole, un carattere distintivo.

 

Il carattere distintivo indica il valore fondamentale che un marchio d’impresa protegge, vale a dire il legame commerciale che esiste tra un marchio e tutti i potenziali acquirenti del bene o servizio contrassegnati dallo stesso.

Finchè esisterà questo collegamento, l’esistenza del marchio sarà giustificata.

Il marchio d’impresa è un bene prezioso che comunica informazioni cruciali per i potenziali acquirenti, tuttavia può rappresentare anche problemi per tutti coloro che operano sul mercato e vendono prodotti simili (McKenna, 2009).

Per facilitare la concorrenza è necessario che vi siano dei registri dei marchi aperti e consultabili, in modo che gli altri concorrenti possano indagare se un segno può causare confusione sul mercato. Agire in questo senso eviterebbe la cospicua serie di contenziosi che vede contrapposti due o più soggetti i quali hanno registrato marchi piuttosto simili; le ricadute positive non sarebbero unicamente esperienziate dai singoli soggetti che devono effettuare una registrazione e che risparmierebbero tempo e denaro evitando questa tipologia di contenziosi, i quali sovente si dimostrano estremamente lunghi e dispendiosi, ma sarebbero anche a favore dei tribunali, la cui mole di lavoro si andrebbe sicuramente riducendo. Proprio per questo è utile che tra i prerequisiti rientri la necessità di rappresentare graficamente il marchio.

Tuttavia gli utlimi sviluppi normativi, abbracciano nuovi modi per identificare beni e servizi, attraverso l’uso di suoni, video, musica e movimenti in generale, oltre alla semplice rappresentazione grafica.

Deve dunque essere possibile rappresentare un marchio in modo chiaro e percepibile, ma occorre anche indagare l’eventuale esistenza di eccezioni che creano ostacoli in relazione alla creazione del marchio, o alla sua registrazione con conseguente invalidazione.

L’articolo 3 della direttiva sul marchio d’impresa, si occupa dei casi di impedimento alla registrazione e dei motivi di nullità.

Un motivo evidente per un rifiuto si ha quando il segno non può costituire un marchio in conformità ai presupposti di cui all’articolo 2, ovvero significa quando il marchio non può essere rappresentato graficamente o manca il carattere distintivo.

Ulteriori motivi di diniego dell’istanza sono rappresentati, secondo l’articolo 3.1 (c), dalle ipotesi in cui il marchio è composto esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per indicare, ad esempio, il tipo, la qualità e la quantità della merce. In altre parole, la protezione dei marchi per le parole descrittive non è giustificata e di conseguenza tali parole sono escluse dalla protezione.

Ciò è in parte dovuto alla necessità posta in capo al Legislatore di consentire il libero uso delle parole ed espressioni tipiche della pratica commerciale.

Un segno, inoltre, non può essere registrato come marchio se esso è diventato di uso comune nel linguaggio corrente o nelle consuetudini e nelle consolidate pratiche commerciali.

Tutti i motivi di rifiuto finora esaminati hanno affrontato l’elemento della distintività, difatti una parola descrittiva o una consuetudine, secondo la regola principale del diritto dei marchi, non è abbastanza distintiva da consentirne la protezione.

Questa carenza, tuttavia, può essere sanata con l’uso.

In conformità con l’articolo 3 (3), infatti, un marchio non è escluso dalla registrazione se ha acquisito un carattere distintivo in seguito all’uso reiterato nel tempo.

Vi sono ulteriori motivi di rifiuto che non possono però essere sanati; ad esempio, l’articolo 3.1 (e) chiarisce che non è possibile registrare i segni che:

  • in senso lato, mirano a soddisfare una funzione tecnica;
  • siano ingannevoli ovvero che confondono o ingannano i consumatori;
  • siano contrari ai principi di buon costume e ordine pubblico.

 

Una volta ottenuta la registrazione di un marchio, occorre chiedersi se si ha il diritto di impedire ad altri l’uso di quel segno in situazioni specifiche. In sostanza, il marchio d’impresa (e la sua protezione) non è un diritto assoluto, e pertanto la possibilità di evitare che altri utilizzino il marchio può andare incontro a diversi limiti, perché non sempre l’utilizzo del marchio da parte di altri concorrenti costituisce una violazione.

Al titolare del marchio si impongono una serie di limitazioni, mediante l’indicazione di determinate situazioni in cui altri avranno il diritto di utilizzare il segno.

Al terzo, ad esempio, deve essere permesso nel corso delle attività commerciali di utilizzare il nome o l’indirizzo; ancora, lo stesso vale per le indicazioni relative alle espressioni generiche, al tipo, alla qualità e alla quantità; infine è anche consentito di utlizzare un marchio laddove sia necessario evidenziare e contraddistinguere la destinazione di un prodotto, come nel caso tipico del rivenditore di pezzi di ricambio.

Le limitazioni menzionate finora riguardano principalmente espressioni generiche e descrittive, e di conseguenza non distintive.

Gli usi del marchio, che esulano dalla protezione accordata per legge, devono comunque essere conformi con gli usi consueti di lealtà in campo commerciale o industriale, così come sancito dall’articolo 6.1 della direttiva.

Una limitazione finale da menzionare è quella prevista dall’articolo 7.1, in linea con la teoria dell’esaurimento dei diritti sopra menzionata, il quale afferma che un marchio non autorizza il titolare a vietare il suo utilizzo per i prodotti immessi in commercio nella Comunità con detto marchio dallo stesso titolare o con il suo consenso.

Possono sorgere complicazioni nell’applicazione pratica di tale principio a causa del fatto che l’articolo 7 include anche una limitazione alla limitazione. Nel secondo comma, infatti, si afferma che il primo non si applica quando esiste un legittimo motivo, per il titolare, di opporsi all’ulteriore commercializzazione delle merci, soprattuto quando la condizione delle stesse è cambiata o compromessa dopo la loro immissione sul mercato.

Sintetizzando dunque, il marchio d’impresa registrato è un diritto forte ma non assoluto, che può essere perpetuo.

Risulta chiaro, tuttavia, come un diritto forte perpetuo sia inutile laddove non fornisce dei vantaggi al suo titolare.

È importante a tal fine, pertanto, indagare come il titolare possa esercitare la titolarità di un marchio in modo utile.

 

4. L’esercizio del marchio d’impresa

L’esercizio di un marchio significa proprio che il titolare sta esperendo il diritto di impedire a terzi di utilizzare un segno identico al suo o che perlomeno sia con esso confondibile.

Un altro modo che il titolare ha di esprimere il diritto sul marchio è quello di esercitarlo per prevenire infrazioni dello stesso. L’articolo 5 della summenzionata direttiva, regola proprio questa prospettiva, conferendo al titolare il diritto esclusivo di vietare a terzi, salvo il proprio consenso:

  • l’uso di marchi d’impresa identici per prodotti o servizi identici;
  • l’uso di marchi d’impresa simili per prodotti o servizi simili, che possano ingenerare confusione nel consumatore;
  • l’uso che sfrutta la notorietà e la buona reputazione dei marchi famosi.

 

Il primo divieto rappresenta la cosiddetta  regola della doppia identità, la quale fornisce al titolare il diritto di impedire l’uso di qualsiasi segno, per prodotti o servizi identici, che sia identico al marchio utilizzato per prodotti o servizi per cui è stato registrato.

L’articolo 5 paragrafo 1 lettera a) è inteso a prevenire situazioni evidenti di contraffazione e tali azioni sono piuttosto facili da giudicare.

La seconda e più problematica regola è quella sancita dall’articolo 5 paragrafo 1 lettera b) per prevenire il rischio di confusione. Il titolare potrà impedire l’uso di qualsiasi segno per il quale esista la probabilità di confusione da parte dei consumatori, ricomprendendovi anche il rischio di associazione tra il segno ed il marchio d’impresa.

Risulta lapalissiano come con tale formulazione, possano sussistere forti difficoltà nell’applicazione della norma, essendo la confusione un elemento di difficile valutazione in quanto attinente alla sfera soggettiva. Per tentare di ovviare parzialmente a questa problematica, si è cercato utilizzare l’indirizzo interpretativo tracciato negli anni. Esistono, infatti, molti casi registrati dalle Corti dell’Unione a riguardo, e sulla base di questi si è cercato di elaborare dei criteri interpretativi che possano fungere da cardine nell’applicazione pratica della regola.

Un elemento fondamentale dell’interpretazione è rappresentato dalla circostanza che il segno in questione sia un marchio d’impresa ben noto; più famoso sarà il marchio, infatti, più sarà ampia la protezione che otterrà, con conseguente capacità di impedirne un uso abile a generare confusione, mentre ovviamente altri marchi meno famosi dovranno attenersi ad una prospettiva di protezione più ristretta.

Un altro elemento di discrimine nell’interpretazione è rappresentato dalla stretta relazione tra la somiglianza dei marchi e la somiglianza dei prodotti o servizi. Se entrambi i segni vengono utilizzati in relazione a servizi o prodotti identici, allora occorrerà differenziare sensibilmente il marchio, per non creare la probabilità di confusione. D’altra parte, se i prodotti o servizi non sono così simili, allora potrebbe essere possibile utilizzare segni identici senza rischiare la probabilità di confusione.

«La giurisprudenza comunitaria sembra orientata in tal senso, trovandosi conferma di ciò nell’affermazione che la valutazione del rischio di confusione nella mente del pubblico deve essere operata in maniera globale, tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie, tra i quali figurano la notorietà del marchio d’impresa sul mercato, l’associazione che può essere fatta tra il marchio d’impresa e il segno usato o registrato, il grado di somiglianza tra il marchio d’impresa e il segno oggetto di azione di contraffazione. La chiave di lettura di tale impostazione risiede proprio nella percezione complessiva dei consumatori»[5].

Infine, vi è la terza regola, che estende la protezione dei marchi più noti. L’articolo 5 comma 2 delinea una norma studiata su misura per proteggere quei marchi d’impresa che godono di notorietà e buona reputazione. Questa regola, a differenza delle altre, non prevede prerequisiti, e riconosce l’immediata protezione del marchio con una solida reputazione alle spalle, senza soffermarsi sulla probabilità che possa essere ingenerata confusione. Si prevede, cioè, che ciascuno Stato membro possa stabilire che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo consenso, di usare un segno identico o simile al marchio di impresa per prodotti o servizi che non siano simili a quelli per i quali esso è stato registrato, nel caso in cui il marchio goda di notorietà e se l’uso immotivato del segno consentirebbe di trarre un indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio, o recherebbe altresì pregiudizio agli stessi.

«Quando un segno è noto ed affermato presso il pubblico, diviene uno strumento particolarmente efficace di richiamo, un messaggero, che può essere più facilmente sfruttato nella comunicazione col pubblico per qualsiasi prodotto o servizio. Si è così parlato di una funzione suggestiva, attrattiva, pubblicitaria del marchio e del suo strumentale come collettore di clientela».[6]

Questa forte forma di protezione, tuttavia, è concessa solo ai marchi d’impresa ben noti.

La tutela del marchio può essere perpetua, come sottolineato precedentemente, ma il diritto registrato deve essere rinnovato ogni dieci anni. Se non si ottempera a quest’onere, il marchio cesserà di esistere e non sarà più protetto.

Questa è solo una delle ipotesi in cui la protezione del marchio può essere revocata.

Oltre al mancato rinnovo della registrazione infatti, va considerato il non utilizzo del marchio per un periodo ininterrotto di 5 anni, nei quali non è stato adoperato, all’interno degli stati membri, in relazione ai prodotti o servizi per i quali è stato registrato, e non sussistano ragioni plausibili per il suo mancato utilizzo. In altri termini, il diritto decade.

«Fra queste ragioni legittime vanno con sicurezza annoverate le circostanze indipendenti dalla volontà del titolare che gli impediscano di impiegare il segno, quali potrebbero essere il sopravvenire di ostilità belliche, il ritardo nella commercializzazione di un farmaco causato dal protrarsi dell’istruttoria presso l’amministrazione competente per il rilascio dell’autorizzazione […]. Le ragioni invocate dal titolare del marchio a giustificare il non uso devono essere legittime; il che vale a escludere che la contrarietà dell’uso del marchio alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume costituiscano causa di giustificazione»[7].

Un’altra causa di decadenza è prevista nell’articolo 12 comma 2 bis, nel quale si stabilisce che qualora per effetto di attività o inattività del titolare, il marchio sia divenuto una generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale è registrato, il titolare decadrà dal relativo diritto.  Il marchio è in questo caso considerato degenerato, ovvero è divenuto semplicemente un’espressione di uso comune per descrivere un prodotto o servizio simile a quello per il quale era stato pensato e registrato.

Sussiste ancora decadenza se dopo la registrazione il marchio sia idoneo ad indurre in errore il pubblico, circa la natura, la qualità o la provenienza geografica dei suddetti prodotti o servizi, a causa dell’uso che ne viene fatto dal titolare o con il suo consenso.

 

5. La comunicazione del brand come strumento di tutela rafforzata del marchio

Per un’impresa non è sufficiente sviluppare un marchio, registrarlo e diffonderlo sul mercato. Essa necessita parimenti di un’azione volta a far conoscere il proprio marchio. In una società sempre più “finanziarizzata”, il peso che un brand detiene non è determinato solo dalla sua conoscenza da parte degli utenti, ma anche da quella posta in capo ai soggetti detentori dei capitali di investimento. Questi ultimi, infatti, tramite la loro azione di investimento scelgono di puntare su una determinata azienda piuttosto che su di un’altra anche in base a come essi percepiscono il marchio aziendale. Questa percezione è determinata da due fattori:

  • dalla naturale propensione soggettiva del singolo investitore nei confronti del brand:
  • dalla valutazione oggettiva delle caratteristiche legate al marchio.

Per ciò che concerne il primo elemento, risulta lampante come ogni individuo possa nutrire verso un determinato brand una simpatia determinata in base, ad esempio, al settore merceologico/di servizio di appartenenza oppure a vari fattori socio-culturali propri del gruppo di appartenenza. In virtù del fatto che questa attitudine risulta più squisitamente basata su elementi soggettivi, e per questo motivo difficilmente standardizzabili e valutabili, non è possibile per l’azienda agire su questa leva se non in modo molto parziale ed indiretto, andando ad influenzare il background nel quale i soggetti obiettivo si inquadrano.

Per quanto riguarda, invece, il secondo fattore, ovvero una valutazione basata su parametri economicamente e/o statisticamente valutabili, si aprono nettamente dei margini di manovra per l’impresa. Se è necessario rilevare che questa tipologia di considerazioni si basano su dati tangibili derivati dalla performance dell’impresa nel mercato di riferimento, è altrettanto importante notare come sovente la differenza nella valutazione di un marchio da parte degli investitori sia determinata dalla quantità di informazioni che essi riescono a reperire al riguardo. La ragione di quanto appena asserito risiede nel principio basilare che caratterizza quasi ogni mercato, ovvero quello delle asimmetrie informative (Demartini e Paoloni, 2013). In questo senso, è estremamente importante per l’impresa riuscire a comunicare al meglio il proprio brand, rendendolo percepibile e riconoscibile attraverso il marchio, nonché desiderato (tanto dal pubblico quanto dall’investitore).

Come precedentemente enunciato, infatti, una maggiore notorietà ed affermazione del brand implica per l’organizzazione la possibilità di esperire una maggiore tutela del proprio marchio sui mercati internazionali. In un vortice virtuoso l’azienda, per mezzo di una comunicazione studiata ed organica, si trova così ad incrementare la notorietà del proprio marchio ed al contempo a costituire le basi fondanti di una tutela rafforzata per lo stesso. In questo senso, pertanto, è possibile affermare che gli sforzi volti a rafforzare la percezione del brand da parte dei consumatori e degli investitori si possano definire come un investimento in nuce verso la tutela del marchio aziendale.

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